Riflessioni di un motociclista

 

Cara amica ti scrivo, così mi distraggo un po’, e siccome sei molto lontana più forte ti scriverò … da quando sono partito c’è una grossa novità….

Libero! Libero sulla strada, libero da quella vetrata caratteristica delle auto e che separa il viaggiatore dal mondo che lo circonda. I profumi, buoni o cattivi che siano, penetrano nelle mie narici senza filtro, senza essere trattenuti o modificati da nulla, perché niente c’è tra me e loro. Sono libero di immergermi nello spazio che mi separa dalla meta, e sono anche libero di fermarmi e parlare con la gente senza sentirmi protetto da spesse pareti di lamiera. Meccanicamente tutto è perfetto: i carburatori respirano davanti a me producendo un sibilo magico e che mai si confonde con il meraviglioso rumore prodotto dalla perfetta sincronia degli scoppi del motore.

In movimento moto e uomo diventano una cosa sola, uno il complemento dell’altro: il polso che accelera sente aumentare la pressione dell’aria proporzionalmente al suo spostamento. Il vento che sbatte con forza sul mio viso mi fa intuire l’andatura e mi regala dei messaggi: rallenta, accelera, apri gli occhi, pensa, vivi. Sono tutti messaggi che il cuore, sia il mio che il suo a due cilindri, si passano senza bisogno di codici, di lingue o di gesti. La passione che lega il mio cuore al bicilindrico che sto guidando è così forte che ogni nota prodotta dalle ruote che rotolano sull’asfalto è trasmessa alle mani, ai piedi, al sedere; siamo così legati che la visiera del casco difficilmente riesce a placare la mia fame di strada, di curve, di sensazioni. Grazie alla moto con la strada voglio avere un contatto fisico, viverla col peso del mio corpo, esserne accecato, rinfrescato, bagnato, accaldato. Solo vivendo sulla mia pelle il bene e il male posso dire di aver vissuto da uomo libero la strada e di conseguenza il viaggio.

Questa considerazione mi fa pensare, e quindi rifletto su questo tema: la fisicità, il mio rapporto con la moto, e le sensazioni che provo, sono in questo momento il viaggio?

Lei corre veloce sull’asfalto che da diversi chilometri infonde sicurezza. Niente più profonde buche o quella specie di binari che tanto ci hanno rallentato in Uzbekistan. Siamo in Kazakhstan, terra che ci sta regalando fantastici paesaggi e per ora strade degne di questo nome; eppure le informazioni raccolte prima della partenza dipingevano questo paese in modo così poco ammaliante.

Lucia viaggia davanti a me, poche centinaia di metri ci separano, la velocità è costante, mai elevata, anche se l’assoluta assenza di curve e la totale mancanza di traffico invogliano ad aprire il gas. Novanta, cento all’ora, questa è la nostra media; il caldo Turkmeno è ormai lontano, il vento che s’insinua nelle prese d’aria del casco porta sulla mia pelle il profumo delle montagne che ci separano dalla Cina.

Dio mio, la Cina! Solo qualche giorno fa eravamo tra le vie della splendida Samarcanda e guarda adesso dove siamo, a due passi da queste montagne che come una spina dorsale sorreggono quello che diventa, più a Sud, il Pamir.

Fuggono ancora i miei pensieri, trasportati da nomi di luoghi leggendari e dagli uomini che li hanno popolati; tutto sembra confluire in questo angolo di terra come in nessun’altra parte del nostro pianeta.  D’altronde ci troviamo nel cuore dell’Asia centrale, cos’altro poteva accadermi, in quale altro stato dovrei sentirmi.

I pensieri corrono veloci, molto più che le ruote sull’asfalto; E’ facile distrarsi, ma è impossibile non far viaggiare assieme a noi il legame tra realtà e il sogno che si sta avverando: il sogno di molti motociclisti, partire da casa e arrivare in Mongolia. Libertà, sia fisica che spirituale, questa è la sensazione che sto provando mentre sono alla guida.

D’improvviso però mi devo “svegliare”, Lucia rallenta, poi vedo la ruota posteriore della sua moto alzarsi di mezzo metro dal suolo; quando capisco cosa le è successo è troppo tardi, anche io vado a sbattere contro quella che non è una semplice buca, ma bensì un canale che taglia in due la strada.

Il gradino – chiamiamolo così – che è profondo circa venti centimetri, non crea grossi problemi alla mia Africa Twin, mentre contribuisce all’esplosione di uno dei paraoli della forcella della Beta di Lucia. Poco male, ci è andata bene: non siamo caduti per miracolo. Forse l’andatura, non certo blanda – per affrontare una situazione del genere – ha fatto sì che riuscissimo a rimanere in piedi; ma quanto siamo stati vicini a non poter più vedere la Mongolia?

Quando mi rendo conto che tutti e due non abbiamo subito grosse conseguenze da questa “tranvata” mi volto a guardare ciò che l’ha provocata. E’ incredibile! Hanno tagliato l’asfalto come se volessero farci passare sotto dei tubi, ma non c’è un cartello, non c’è nessuno, non ci sono neanche i tubi!

Forse semplicemente qualcuno si è dimenticato di ripristinare questo canale, forse qualcuno prima o poi dovrà farci dei lavori; non lo so, la cosa certa è che ora non mi sento più libero come prima. Anzi, no, mi sento libero di dire: “Vaffanculo! Vaffanculo… Cazzo!”.

C’è mancato un attimo e il sogno si sarebbe tramutato in un incubo, o nella migliore delle ipotesi, la più semplice, il sogno sarebbe semplicemente finito, come quando suona la sveglia mentre ne stai facendo uno idilliaco.

D’altronde l’avevo detto: curva dopo curva diventa sempre più forte il legame tra moto e pilota; l’intima relazione che si instaura tra meccanica e uomo diventa per forza di cose parte dell’esperienza che si sta vivendo; ogni situazione che si crea tra queste due entità diventa parte del viaggio, ne plasma l’andamento, ne diventa uno dei tanti ricordi ed infine ne compone un puzzle.

A seconda degli obiettivi il risultato di questa relazione può saziare il viaggiatore, renderlo saturo d’emozioni, appagarlo dalla propria esperienza.

E’ questa la chiave di volta.

Spesso dei viaggi ci si ricorda delle situazioni più difficili: il passaggio tremendo sulla sabbia, l’asfalto bucato, si rivive quel vento che ti portava via, quelle centinaia di chilometri percorse nella stessa giornata o quella tempesta di sabbia che per ore ci ha fatto viaggiare con gli occhi semichiusi. Quasi sempre si ancorano nel cervello le vittorie: sono quelle che si raccontano agli amici, agli altri viaggiatori e che con difficoltà si perdono nei meandri della mente. Più facilmente il resto, il semplice, si sbiadisce facendo posto a ricordi nuovi o a nuovi obiettivi. E’ vero perché queste situazioni, più difficili di altre, sono vissute in modo molto intenso da tutti i nostri sensi: con il sudore, con la paura, con suggestione; tutte queste emozioni diventano le fondamenta di un viaggio.

E’ anche vero che ciò che osserviamo dalla sella, magari dopo una giornata di dura pista, viene trasformato dal nostro stato fisico: avete mai trattato con albergatore Ucraino a mezzanotte dopo aver preso una giornata d’acqua? Io si. Mi ricordo che quasi volevo prenderlo a sberle dopo che con ostinazione sembrava far finta di non capirmi. Inutile cercare di calmarmi, stanco com’ero, e riflettere sul fatto che quell’uomo davvero non mi capiva, e davvero forse prima d’allora non aveva mai visto un turista.

Chiedo a me stesso: Fino a che punto la mia condizione di motociclista mi concede di separarmi dal legame con lo stato fisico e di concedermi invece di vivere ciò e chi mi sta di fronte per quello che è in realtà?

Sono davvero libero di vivere con serenità un viaggio, di portarne a casa i suoi frutti, anche più insapori, quando so che tutto si potrebbe interrompere per una semplice dimenticanza di un operaio Kazako?

E’innegabile che sul piatto della bilancia vada messa anche un’altra componente di riflessione: la possibilità che concede una due ruote di muoversi in completa autonomia. Acqua, cibo e benzina sono solo alcune delle esigenze di un moto-viaggiatore e la loro reperibilità in certi luoghi è spesso ciò che finisce per plasmare un itinerario o che ne detta i tempi.

Ciò potrebbe non pregiudicare quello che vorrei portare a casa da un viaggio, anzi, dei miei ho sempre amato il rientro in un villaggio dopo uno o due giorni di deserto proprio perché di questo mi permetteva di conoscere un altro importante aspetto: l’uomo. Ma ahimé è un dato di fatto che per raggiungere da soli certi luoghi con una motocicletta bisogna tagliare itinerari, farsi scortare o, per ultimo, rischiare.

Il rischio – spesso confuso con l’avventura – per tutto ciò che ho provato a spiegare prima di tutto a me stesso, rientra nella componente emozionale di un viaggio in moto, ma le altre due alternative mi vanno decisamente strette.

Sono libero di “conoscere” se rendo il viaggio il risultato delle emozioni ricavate dalla mia condizione psicofisica? E sono libero se questo viaggio viene disegnato in base alle esigenze “fisiche” di una motocicletta?

Ecco che questa riflessione mi porta a una conclusione: ciò che prima era libertà ora è diventato un limite. Qualcuno giustamente ha detto che “Quattro ruote muovono il corpo, due spostano l’anima” e mai frase penso abbia descritto meglio la moto.

Ma è questo il punto: l’anima impegnata a godere della passione delle due ruote forse mi sta distraendo da quelli che voglio siano gli obiettivi dei miei prossimi viaggi. Viaggi che, qualsiasi sia la meta, non posso permettermi di far passare davanti ai miei occhi vivendone solo il trasporto fisico.

Viaggi che non voglio siano limitati dalle possibili conseguenze che la moto può avere sulla mia autonomia e sulla mia sicurezza. Non posso farlo avendo poco tempo a disposizione – sono un normale impiegato – e ho un forte desiderio di toccare con mano luoghi poco frequentati dai turisti, quei posti dove solo apparentemente non c’è nulla, ma che visti con occhi diversi si rivelano magici. Sono quei posti dove sogno di tornare perché hanno colpito il mio spirito vincendo l’attrazione della mia anima per la guida delle due ruote.

Devo dunque ammettere che la mia voglia di libertà, di scoperta e di indipendenza, ha vinto anche ciò che del viaggio mi ha sempre appassionato: la moto.

Simone

www.advrider.it

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